venerdì 21 novembre 2025

GIORNATA DELLA COMUNITÀ

Intervento don Stefano - Essere comunità parrocchiale oggi

Quando penso alla comunità, mi viene in mente un’immagine semplice: le cuffie. Quelle del vecchio Walkman, con la spugna che si consumava sulle orecchie, la cassetta che ogni tanto si bloccava, e quel suono un po’ ovattato che pure ci faceva sentire vivi. Poi sono arrivate le cuffiette sempre più piccole, poi quelle wireless che cancellano ogni rumore. Basta infilarle tutte e due e il mondo scompare. Non senti più nulla, nemmeno chi ti parla accanto.

A volte anche nella Chiesa rischiamo di vivere così: ognuno con le sue cuffie spirituali, sintonizzato sulle proprie frequenze — i propri gusti, il proprio modo di credere, il proprio gruppo — ma incapace di ascoltare davvero chi ci cammina vicino. Eppure la comunità nasce proprio dal togliersi le cuffie. Dal lasciare entrare la voce dell’altro, anche quando stona con la nostra. 

Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che la Chiesa non è una somma di individui, ma un popolo: il Popolo di Dio.

Lumen Gentium – Capitolo II, n. 13
Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l’intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi. … Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l’insegnamento. Divenuti spontaneamente modelli del gregge, presiedano e servano la loro comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome di cui è insignito l’unico popolo di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio.

Prima viene il noi, poi i ministeri. 

Prima la comunione, poi l’organizzazione.

Essere Popolo di Dio significa che ogni battezzato è corresponsabile della missione, non spettatore di un servizio religioso.

Allora mi chiedo — e vi chiedo:

  • quante volte la nostra parrocchia assomiglia più a un centro servizi che a una casa dove si vive insieme?
  • quante volte ci preoccupiamo di “tenere in piedi” le attività, ma non ci chiediamo se stiamo costruendo relazioni vere, capaci di perdono e di ascolto?
  • e io, che parte ho nella costruzione del “noi”? Mi basta ascoltare la mia musica o sono disposto a far risuonare quella degli altri?

Il Concilio, l’Apostolicam Actuositatem, la Lumen Gentium, ci dicono che la parrocchia è il primo luogo dell’apostolato comunitario.

Non è il campo d’azione del prete, ma il cantiere di tutti.

Apostolicam Actuositatem – n. 10
Il primo campo dell’apostolato dei laici all’interno della comunità ecclesiale è la parrocchia. … La parrocchia offre un luminoso esempio di apostolato ‘comunitario’. Nella parrocchia l’azione dei laici è necessaria perché l’apostolato dei Pastori possa raggiungere la sua piena efficacia.

Presbyterorum Ordinis, n. 1
I presbiteri, in virtù della sacra ordinazione e della missione che ricevono dai vescovi, sono promossi al servizio di Cristo maestro, sacerdote e re; essi partecipano al suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo.”

I presbiteri, dice la Presbyterorum Ordinis, sono chiamati a edificare il Popolo di Dio: non a sostituirlo, ma a servirlo.

Papa Francesco, con Evangelii gaudium, ci ha consegnato un’immagine forte: la parrocchia non è una struttura vecchia da smantellare, ma una realtà viva da riformare. È la Chiesa che abita “in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie”. Non un gruppo chiuso che guarda a se stesso, ma una comunità che esce, che ascolta, che accoglie.

Il Papa ci chiede di abbandonare il criterio del “si è sempre fatto così”.

Esortazione apostolica Evangelii gaudium n. 27:
Sogno un’opzione missionaria, cioè un impulso missionario capace di trasformare tutto, affinché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato all’evangelizzazione del mondo attuale più che per l’auto‑preservazione. La riforma delle strutture che esige la conversione pastorale può essere compresa solo in questo senso: come parte di uno sforzo perché esse diventino più orientate alla missione, perché l’azione pastorale ordinaria a tutti i livelli sia più inclusiva e aperta, per suscitare negli operatori pastorali una costante disposizione all’uscita e in tal modo favorire una risposta positiva di tutti coloro che Gesù chiama alla sua amicizia.

Esortazione apostolica Evangelii gaudium n. 28:
La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere ‘la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie’. Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione.

Esortazione apostolica Evangelii gaudium n. 33:
La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale.

E allora la domanda è: siamo ancora disposti a cambiare frequenza, a risintonizzarci sul mondo che ci circonda?

La Conversione pastorale della comunità parrocchiale a cura della Congregazione per il Clero del 2020 parla di parrocchie come “case in mezzo alle case”. Bellissima immagine: non un rifugio per pochi, ma un luogo dove Cristo abita la vita quotidiana della gente, con i suoi affetti, il lavoro, il riposo, la fragilità.

Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale” – 2020, n. 7
Sin dal suo sorgere, dunque, la parrocchia si pone come risposta a una esigenza pastorale precisa, portare il Vangelo vicino al Popolo attraverso l’annuncio della fede e la celebrazione dei sacramenti. La stessa etimologia del termine rende comprensibile il senso dell’istituzione: la parrocchia è una casa in mezzo alle case e risponde alla logica dell’Incarnazione di Gesù Cristo, vivo e operante nella comunità umana.

E il Sinodo sulla sinodalità ci ha messo di fronte alla sfida più grande: non basta fare eventi o riunioni; servono processi di ascolto reale, partecipazione, discernimento condiviso.

Significa camminare insieme, non per abitudine, ma per scelta.

Una Chiesa che ascolta, discerne, decide insieme.

Una comunità dove il sacerdote non è solo un gestore, ma un animatore di comunione; e i laici non sono semplici “collaboratori”, ma parte viva della missione.

La verità è che questo cammino costa.

Costa al prete, che deve rinunciare al “fare tutto da solo”.

Costa ai laici, che devono passare dal criticare al mettersi in gioco.

Costa a tutti, perché significa cambiare ritmo.

Ma è proprio lì che la comunità si rigenera.

Forse oggi il primo passo è semplice: provare a togliere una cuffia.

Riascoltare le voci intorno a noi — quelle che ci disturbano, ma ci tengono vivi. E magari scoprire che la vera musica della Chiesa non è quella che scegliamo da soli, ma quella che nasce quando le nostre differenze si accordano insieme.

Ultimo punto della mia riflessione: il tema giovani!

Riflettendo sul tema della comunità, mi accorgo di quanto spesso guardiamo ai giovani come a un problema da risolvere più che come a una risorsa da accogliere. 

Li consideriamo un campo da coltivare, un luogo dove “insegnare qualcosa”, ma raramente ci fermiamo a riconoscere quanto potremmo imparare da loro.

C’è nei giovani una generosità che sorprende, una capacità di ascolto che non sempre si manifesta nei modi che noi adulti ci aspettiamo, e una resilienza silenziosa che li aiuta a stare in piedi in un mondo che cambia con troppa fretta. 

È un mondo che li costringe a essere “connessi” sempre, ma che spesso li lascia soli. Tutto si gioca in un clic, in un’immagine che cattura attenzione per un istante e poi svanisce. 

Da fuori, appaiono distratti, superficiali, distanti. Ma forse siamo noi che non riusciamo più a capire il loro linguaggio.

A volte li carichiamo di responsabilità che non possono reggere, concedendo libertà che alla loro età non avevamo. Forse lo facciamo per senso di colpa, per pareggiare i conti con ciò che i nostri genitori non ci hanno dato. Ma così finiamo per confonderli ancora di più: chiediamo loro di essere adulti senza averli aiutati a diventarlo.

La verità è che se il mondo giovanile ci sembra un problema, è perché noi adulti non siamo più capaci di ascoltarlo davvero. Abbiamo smesso di metterci accanto, di saperci stupire, di restare nel silenzio di un dialogo che nasce piano, senza fretta.

Forse il primo passo è semplice e difficile insieme: smettere di voler “capire” i giovani e cominciare ad “ascoltarli”. 

Non per giudicarli o correggerli, ma per lasciarci interrogare da loro. Perché i giovani non sono un progetto da realizzare. Sono una voce da accogliere, un cammino che ci ricorda quanto anche noi, un tempo, abbiamo cercato qualcuno che ci ascoltasse davvero. 

E allora, se davvero vogliamo essere comunità, forse oggi il Signore ci chiede una cosa molto semplice e molto seria: alzare lo sguardo.

Smettere di guardare solo ciò che manca, ciò che non funziona, ciò che non va come vorremmo. E ricominciare a guardare i volti. I volti veri. Quelli che il Signore ci mette accanto.

Perché la comunità non nasce dai programmi, ma dagli incontri.

Non nasce dalle strutture, ma dalle relazioni.

Non nasce da ciò che facciamo, ma da come ci ascoltiamo.

E allora vi chiedo questo — senza paura e senza scuse:

chi è la persona che oggi devo ricominciare ad ascoltare?

Chi è la persona da cui mi sono allontanato?

Chi è la persona che ho giudicato in fretta?

Chi è la persona che sta aspettando una telefonata, un “come stai?”, un piccolo passo?

La comunità rinasce così: un cuore alla volta.

E il Vangelo riparte così: un ascolto alla volta.

Se togliamo una cuffia, se ci lasciamo toccare dalla voce dell’altro, magari scopriremo che il Signore sta già suonando una musica nuova.

Una musica che non è mia, non è tua — è nostra.

È la musica del Popolo di Dio che cammina insieme, con i suoi limiti, le sue ferite, le sue meraviglie.

Una musica che vale la pena ascoltare, custodire, e far crescere.

E allora… cominciamo.

Oggi.

Con un gesto piccolo, concreto, possibile.

Perché la comunità non è domani: la comunità siamo noi. Adesso.


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